Il teorema del gatto

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Ogni giorno il mio gatto si mette sulla sedia sbagliata. Non quella col cuscino rosso, dedicata a lui, ma su una di quelle con il cuscino blu. Nemmeno sempre la stessa, tra l’altro. Io allora cosa faccio? Lo scaravento in quasi-malomodo sul suo giaciglio dalle sfumature scarlatte (che poesia, eh?) e lui riprende a dormire.

Non so perché sia così stupido: se si mettesse subito al suo posto, nessuno gli romperebbe le scatole. E invece continua a preferire il capezzale pervinca (e qui l’epica giunge all’apice, con un’allitterazione da Nobel).

Forse lo fa perché preferisce il blu, oppure perché ha la memoria breve. O, semplicemente, è una stramaledetta testa di cazzo. In effetti tutte le prove raccolte portano a quest’ultima opzione.

Ci rimugino un po’, e concludo che questo tipo di problemi appartengano solamente al regno animale.

Appagato dall’incredibile deduzione, decido di andare a letto. Prima di addormentarmi, leggo l’ultimo numero di Inchiostro, e a questo punto ripenso al gatto. Ripenso al suo continuo errore, ripetuto all’infinito. E ripenso a quando la redazione di Inchiostro era formata da gente che sbagliava, certo, ma una volta sola. Insomma: errare è umano, perseverare è diabolico.

Ogni volta ci ricasco, e mi illudo. Chiudo gli occhi, prendo il giornale, ne assaporo con l’olfatto l’inchiostro (minuscolo), riapro gli occhi e inizio a leggere. “Questa volta”,  penso, “sarà diverso”. Ma mi sbaglio.

Finché si tratta di apostrofi al posto di accenti, spaziature sbagliate dei segni di punteggiatura, titoli tutti uguali, posso sopportare. Ma una frase come “Inchiostro è sempre alla ricerca ad ogni tipo di collaborazione”, quella sì, mi fa rabbrividire. Poi però mi consolo, nel vedere un altro errore più avanti nel medesimo testo: per una beffa del destino, suona come una autoammissione.

“Abbiamo bisogno di competenze come giornalisti, blogger, impaginatori, …”.

Sì, come giornalisti avete proprio bisogno di competenze.

PS. Da questo post può sembrare che io stia facendo di tutta l’erba un fascio, ma non è così: all’interno della redazione di Inchiostro sono presenti persone che stimo moltissimo, pure come futuri giornalisti. Il problema è che, quando in un’automobile manca il conducente, l’aria condizionata è inutile.

Ricambio

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Weekend importante per la mia casa.

È il primo fine settimana che trascorro nella mia dimora dall’inizio dell’anno accademico e mi rendo conto che non me lo sarei voluto perdere per alcun motivo. Ognuno dei miei coinquilini ha portato “qualcosa” di importante. Chi fisicamente e chi col pensiero.

  • Luana, l’ultima new entry, ha finalmente ricevuto il suo pacco da Vittoria. Oltre a provviste di vario tipo, saltano all’occhio i pomodorini. In questo modo la Sicilia è un po’ meno lontana.
  • Giuseppina, un po’ meno new entry di Luana, è arrivata oggi con un’enorme forma di Grana (una decina di chili almeno, penso). Subito ha sottolineato: “È di Aiesec, però potete mangiarlo”. Strano che non me l’abbia detto in inglese.
  • Alberto, invece, sposta scatoloni. Dopo tre anni di felice convivenza, almeno da parte mia, un pezzo importante della mia vita fuori dal Collegio se ne va. Convivenza con la fidanzata. Tic tac, il tempo scorre. L’ho aiutato a caricare la macchina, è stato un po’ come aiutare la ragazza di cui si è innamorati a conquistare un altro uomo. Mi mancherà.

Festeggiamo i morti

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Nella mia atea ingenuità, spesso dimentico che molti dei giorni di festa in giro per l’anno sono di natura religiosa. Lunedì, ad esempio, i negozi sono chiusi, gli uffici pure e i ragazzi non vanno a scuola. Perché? Per festeggiare i morti.

Secondo la mia religione, ovvero l’ateismo, questa festività è un’ipocrisia e un insulto alle persone che ci hanno lasciato. Ho superato l’idea, appoggiata troppo spesso dai giornalisti, secondo cui i morti sono sempre persone buone. Muoiono anche i cattivi, perbacco! E per fortuna, aggiungerei.

Se il morto era buono e “vale la pena” riviverne la presenza, sarà ricordato comunque, nei momenti della vita quotidiana: al tavolo dove mangiava, nella stanza dove si cambiava, nell’edicola dove era solito comprare il giornale. Ogni volta che visito un monumento della nostra splendida Italia, mi viene in mente il mio Professore di Storia dell’Arte del liceo. Non riuscirei mai a guardare il Pantheon di Roma senza pensare a lui.

Anche quando passo davanti a casa mia, salutando la signora Carmen mi viene in mente mio nonno che viveva dove ora vive lei.

Nessun giorno vale tanto come i ricordi.

Cultura… scientifica?

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Scena 1

– Cosa hai studiato? – Mi chiedono.
– Matematica – rispondo io.

Sarebbero facce da fotografare, quelle che mi si parano davanti. Mi sento un alieno.

– Io non ho mai capito un tubo di matematica – rispondono quasi altezzosi.

Come se conoscere la matematica fosse un’elucubrazione mentale per chi non ha di meglio con cui passare il tempo.

Scena 2

– Quel ramo del Lago di Como… – mi dicono.
– Che roba è, un albero? – rispondo io.

Ecco che ora sono un maledetto ignorante.

– Ma come si fa a non conoscere l’incipit dei Promessi Sposi?


Perché in Italia “cultura” non è sinonimo di “sapere scientifico” e “ricerca”?

La stessa etimologia delle parole ne denota il loro intrinseco legame: non è possibile fare ricerca in un campo non coltivato. Il concetto di “Ricerca”, negli anni, si è quindi sempre di più andato allontanando da quello di “Cultura”, relegando il secondo termine per lo più alle discipline umanistiche, mentre il primo resta riservato a quelle scientifiche. Si pensi a quanto sia rispettoso e riverente un uomo “colto” e invece quanto assuma un’accezione negativa la parola “nerd”. Le scene appena citate sono un esempio preso dalla vita di tutti i giorni che può esemplificare adeguatamente l’idea.

Questo fattore ha ovviamente avuto ripercussioni sulla percezione che di ricerca ha la popolazione. Quest’ultima è pienamente consapevole che parte delle sue tasse viene dedicata alla ricerca, ma non ha assolutamente cognizione di cosa questo significhi. Ad alimentare il circolo vizioso si inserisce la Politica, che può permettersi di dare meno priorità alla ricerca, fornendo invece più attenzione a temi vicini alla popolazione e da questa direttamente sentiti.

Forse, se ci fossero più soldi per la ricerca, se ne parlerebbe di più e ne nascerebbe una concezione diversa. Forse, d’altra parte, il fatto che la popolazione italiana sia così disinteressata ai tagli alla ricerca, incentiva un governo senza più soldi a tagliare dove fa meno male.

Forse, e dico forse, questo circolo vizioso non porterà a nulla di buono e andrebbe interrotto.

Forse.

Il paradosso della scienza

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Fonte: http://brownsharpie.courtneygibbons.org/?p=1158

Io sono per la scienza. Credo in quello che fa, mi fido di essa e sono fermamente convinto di avere ragione. Sono favorevole alla ricerca sulle cellule staminali, sto con Darwin e non penso che gli OGM facciano male.

Tuttavia mi chiedo: perché io ho questo atteggiamento e altre persone non ce l’hanno?

Semplice: io ho a che fare con la scienza: sono laureato in matematica, seguo un Master in Comunicazione della Scienza e leggo riviste scientifiche. Sembra una risposta banale a un dilemma senza vie d’uscita, ma questa è la mia risposta. Chi ha a che fare con la scienza, generalmente, ne è favorevole, mentre chi non ne ha a che fare, tendenzialmente, è contrario. Ora il punto è: si deve davvero ricorrere alla democrazia per le questioni di etica scientifica? Oppure, dall’altra parte, è “sano” che le persone a favore di una certa cosa sono quelle che dalla cosa traggono profitto?

È sensato che uno scienziato parteggi per OGM e nucleare, così come un cacciatore parteggia per la caccia o un fumatore per la possibilità di fumare nei luoghi pubblici. Ma cosa dire dell’utente comune? Può parlare di scienza come parla di fumo e caccia?

Insomma: il gatto è vivo o morto?

Viaggio in Norvegia /4 (24 ottobre 2010)

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Ed è arrivato, ahimè, l’ultimo giorno di vacanza.

Ci svegliamo presto, la colazione è servita solamente fino alle 9. Anche oggi english breakfast a base di uova e pancetta. Dopo il fiero pasto, Mattia si corica ancora qualche decina di minuti sul letto, stanco del viaggio e, più probabilmente, sopraffatto dalla malattia che sta covando ed esternando. Una Tachipirina, però, compie egregiamente il suo lavoro e intorno alle 11 partiamo baldanzosi alla volta di Oslo.

La signorina della reception ci suggerisce di non prendere il tunnel (“the big tunnel is just a tunnel”), ma di optare per la stradina che porta a Laerdal attraverso i meravigliosi paesaggi dei fiordi norvegesi. Non senza qualche perplessità, decidiamo di seguire il consiglio e ci avviamo verso la sperduta stradina. Non ci ferma nemmeno un cartello minaccioso con scritto “strada chiusa” all’inizio della salita. Quello che davvero ci fa ripensare alla decisione è una summa di strada tortuosa, ghiaccio sull’asfalto e, soprattutto, totale mancanza del parapetto. È destino che si faccia il mega tunnel.

Dopo la turisticissima fotografia davanti al cartello che declama la lunghezza della galleria (ben 24.6 chilometri), entriamo. Il tunnel sembra non finire mai, e dopo 6 chilometri troviamo un piacevole spiazzo scavato nella roccia e illuminato di una luce azzurrina. Ne incontreremo altri tre e scopriremo che servono per spezzare la monotonia dei 24 chilometri: effettivamente potrebbero causare sonnolenza anche all’autista più preparato.

Fuori dalla montagna, ci troviamo davanti a un bivio: entrambe le strade portano a Oslo, ma una è leggermente più corta. Non ci facciamo intimidire dalle stupide leggende metropolitane e imbocchiamo quest’ultima, finendo né più né meno in una zona quasi desertica degna della steppa siberiana.

Per fortuna dopo qualche decina di chilometri incontriamo Gol, un piccolo squarcio di civiltà, sottolineata anche dagli impianti sciistici e dai negozi di articoli sportivi. La fame inizia a farsi sentire, quindi ci fermiamo in un fast food gestito da pakistani per pranzare con due piatti di indefinibili proporzioni.

Nonostante l’abbiocco, ripartiamo senza troppi problemi. Come sempre nella nostra avventura last minute, mentre io guido, Mattia si occupa di prenotare l’albergo. Questa volta troviamo posto in un megalussuoso hotel a quattro stelle in un piccolo paese chiamato Asker, a est di Oslo.

All’arrivo, il ragazzotto della reception non trova la nostra prenotazione, ma una telefonata provvidenziale (e un po’ minatoria) al servizio clienti di Olotels ci permette di dormire. Anche per stanotte è fatta: veloce cena al McDonald’s a pochi metri dall’albergo e poi a nanna, per l’ultima volta in terra norvegese.

Viaggio in Norvegia /3 (23 ottobre 2010)

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Terzo giorno. Si fanno sempre più sentire le particolarità norvegesi: i costi eccessivi, il freddo polare, le ragazze… gnocche (inutile usare giri di parole).

Alzati alle 9 circa, finalmente ci degniamo di fare una colazione decente: Mattia rimane fedele ai gusti italiani, mentre i miei occhi si illuminano quando la ragazza dell’ostello mi propone la colazione all’inglese. Ovviamente sì; e arrivano così uova, wurstel e pancetta.

Alle 10 partenza per Bergen, seconda città norvegese per dimensione. La strada da seguire è quella del percorso europeo E39, che comprende ponti, gallerie e tratti di traghetto. Sulla questioni ponti/gallerie, poi, siamo rimasti notevolmente stupiti nello scoprire che per non rovinare il paesaggio i norvegesi hanno preferito costruire lunghissime gallerie sotto i fiordi, piuttosto che antiestetici ponti. Ci troviamo quindi davanti a ben due tunnel prima in ripida discesa, poi in piano e successivamente in salita. Nel punto più fondo non manca la fotografia al cartello: 260 metri sotto il livello del mare.

È il turno dei traghetti, utilizzati per i tragitti più lunghi dove sarebbe stato impensabile costruire ponti o gallerie. L’organizzazione, manco a dirlo, è ottima. Le corse sono frequentissime, una ogni mezz’ora, e in circa 6 minuti con puntualità vengono sbarcate tutte le automobili del viaggio in arrivo e caricate quelle del viaggio in partenza. Il battello non ha nulla da invidiare a quelli dei viaggi di linea, disponendo di bar, ristorante, servizi e collegamento internet.

Globalmente, in quattro ore abbiamo percorso 200 chilometri tra ponti, gallerie e viaggi in traghetto.

Vedendo questa organizzazione, che per i norvegesi rappresenta la normalità, ci si chiede per quale motivo in Italia ci vogliano trent’anni per decidere come diavolo unire Sicilia e Calabria, distanti solamente tre chilometri.

All’arrivo, si capisce subito che Bergen rappresenta una metropoli del nord Europa: troviamo negozi di lusso, locali, ristoranti, monumenti e gli immancabili fast food (compreso Deli de Luca). I prezzi rimangono sempre proibitivi, e decidiamo di mangiare in un banale McDonald’s.

Finito il tour e riscoperti i soliti tre “must” (ricordiamo: freddo, prezzi e donne), continuiamo il giro e ci portiamo nuovamente avanti sulla tabella di marcia. L’idea è quella di fare tappa a Voss per la notte, centro abitato di circa 12 mila abitanti. Tuttavia, molti alberghi sono chiusi e i pochi disponibili sono pieni, oppure hanno prezzi più proibitivi del solito, con cifre che superano i 100 euro per notte a testa.

Optiamo per allungare ulteriormente fino ad Aurland, paesino di 1800 anime situato proprio all’imbocco del famoso tunnel automobilistico di 24 chilometri, il più lungo del mondo. Per fortuna nell’unico albergo presente troviamo posto (990 corone, 120 euro), così puntiamo il Tomtom verso il paesino.

Giunti a trenta chilometri circa dal centro abitato, troviamo però il cartello di ingresso nell’area comunale, al che ci poniamo il problema di dove fosse l’albergo. Telefoniamo nuovamente, per sentirci dire: “prima del tunnel lungo, girate verso il paese”. Ora, che ci sia il tunnel di 24 chilometri lo sappiamo, ma quando ci troviamo davanti a una galleria di 11 chilometri, il dubbio su quale intendesse per “tunnel lungo” comunque viene. Scopriremo successivamente che 11 chilometri per un tunnel in Norvegia sono la normalità.

Una volta trovato, l’albergo si rivela estremamente confortevole e ci regala una vista impagabile sul fiordo. Mattia nel frattempo decide che la vacanza rappresenta il suo cambio di stagione, e si becca l’influenza. Per fortuna ho portato la Tachipirina.

Viaggio in Norvegia /2 (22 ottobre)

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Per restare allenati, il secondo giorno ci aspetta una levataccia che, seppur non pesante come la precedente, non mette certo di buon umore. Alle sei meno un quarto tutti in piedi per raccattare i nostri amenicoli informatici sparsi per la stanza e prendere il tram delle sei e mezza. Tram che prevedeva sì la vendita di biglietti a bordo, ma a prezzo maggiorato; e alle 6.35 del mattino, buio pesto, non c’erano molti posti dove comprarli. Ce la siamo “cavata” con 40 corone (5 euro).

Alla stazione degli autobus Mattia si lascia di nuovo sedurre dai tre panini dolci di Deli de Luca. Io opto per un sano frutto, categoria merceologica decisamente carente nel menu dei norvegesi. Mattia, per svegliarsi un po’, cerca disperatamente di prendere un caffè alla macchinetta, riuscendo nell’intento con parecchia difficoltà.

Il viaggio in autobus fino a Torp trascorre rapidamente tra un sonnellino e una partita a Monopoli sull’iPhone. All’aeroporto consegniamo la nostra prenotazione alla graziosa signorina di Hertz e ci facciamo dare le chiavi del bolide: Volkswagen Polo 1.2. A parte un primo intoppo nel cercare di aprire il bagagliaio, la macchina è ok. C’è persino lo scalda sedile, indispensabile alle temperature nordiche. Grande assente: l’aria condizionata.

Impostato il Tomtom, partiamo alla volta di Kristiansand, prima tappa del nostro viaggio.

L’autostrada sarebbe confortevole, se uno strato di neve e ghiaccio non ci costringesse a velocità da carro bestiame e un’attenzione da gara di tabelline. Per fortuna guida Mattia. Subito prima di arrivare a destinazione, ci fermiamo per rifocillarsi con un hot dog presso un 7-Eleven, catena simile all’Autogrill, presente sia nelle stazioni di servizio sia nei centri abitati.

Grazie alla posizione vicina al mare e verso sud di Kristiansand, presto le temperature si riportano su valori adeguati ai nostri poveri corpicini, fino all’arrivo nella cittadina norvegese. Mare implica però vento, e a pochi gradi sopra lo zero, il vento è “peso”. Durante il giretto nel grazioso centro storico, mi fermo a un Kiwi (un equivalente del defunto Dì per dì italiano) per la mia solita razione di frutta. Acquisto anche una bottiglietta di Pepsi Raw, una cola “naturale”, priva di additivi chimici, tentativo del gigante americano di guadagnare terreno sull’eterno rivale Coca Cola.

Inizialmente la nostra roadmap prevedeva una notte a Kristiansand, ma io e Mattia siamo persone che, nella vita ma non nel lavoro, preferiamo fare oggi ciò che potremmo benissimo rimandare a domani. Inoltre Kristiansand è piccola e concludiamo il giro in un paio d’ore, tra il porticciolo e le spiagge che però, data la stagione, sono praticamente deserte. Così si riparte, questa volta con me alla guida, per la prossima tappa: Stavanger.

La seconda parte del viaggio vede come protagonista il mare, con la stranezza della vegetazione circostante, tipica in Italia dei paesaggi alpini. Colpisce in particolare la presenza della neve, che con il mare ha poco da spartire (anche se in realtà sono fatte della stessa roba). Mentre io sono dedito alla guida, Mattia si diletta con qualche foto e regala svariati euro a Tre nelle telefonate per la ricerca di un albergo a Stavanger.

Dopo poche ore l’amico Tomtom ci porta dritti al B&B dove abbiamo miracolosamente trovato una camera per la modica cifra di 890 corone (110 euro). La stanzetta è piccola e fretta, manca il gabinetto, ma è provvista di lavandino lillipuziano e doccia che si affaccia direttamente nella stanza.

È ora di cena e chiediamo alla ragazza della reception se ci siano locali dove poter mangiare qualche piatto tipico. Dall’espressione stupida e un po’ schifata, capiamo che i norvegesi non mangiano troppo raffinato. Ci consiglia comunque una serie di posti “carini” sulla costa, che poi scopriremo costare almeno 80 euro a testa per dei piatti spesso tipici italiani (ma tu guarda il caso, eh?). Optiamo quindi per una cena veramente norvegese e ci buttiamo in un fast food di infima categoria.

La serata, ormai giunta al termine, mi regala però una chicca: la versione come-mamma-l’ha-fatto di Mattia, immagine obbligata vista la posizione alquanto insolita della doccia. La radiosa visione mi è stata talmente traumatica che durante la notte ho russato, evento mai capitato prima.

Viaggio in Norvegia /1 (21 ottobre)

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Sveglia alle 4 del mattino. È questa la classica partenza dei voli Ryanair: costano poco, partono da aeroporti sperduti, arrivano in aeroporti altrettanto sperduti, ma funzionano. Con puntualità inusuale per l’Italia alle 6.40 l’aereo parte alla volta di Torp, vicino a Sandefjord, a sud di Oslo.

All’uscita dall’aeromobile, la prima cosa che colpisce è il freddo, pungente ma gradevole, decisamente strano al 20 di ottobre (la temperatura è probabilmente prossima allo zero, se non sotto).

L’autobus per Oslo ci aspetta subito fuori dall’aeroporto, e scopriamo di poter pagare direttamente all’autista tramite carta di credito, ritardando così il nostro primo approccio con la valuta locale. Un’ora e quarantacinque minuti dopo siamo a destinazione, a prelevare le nostre prime 1000 corone (circa 125 euro) alla stazione centrale di Oslo.

Sono le 11 circa, ma la fame inizia a farsi sentire. È a questo punto che scopriamo quanto il paese fosse caro: al cambio, 8 euro per un kebab, 20 per una pizza. Le nostre 1000 corone sarebbero durate poco.

Dopo aver lasciato le valigie in albergo, cerchiamo un posto dove mangiare. L’opzione più ragionevole è un piccolo pub, più o meno tipico, vicino alla costa: piattone con carne e verdure, niente di meglio per iniziare la nostra prima vera giornata norvegese.

Dopo pranzo, tappa culturale al Munch-Museet con primo viaggio in metropolitana (28 corone, più di 3 euro). Dato il periodo poco turistico, l’ingresso è gratuito, con tanto sollievo per Mattia, compagno di avventure, che al museo era poco interessato. Tra un Urlo e una Madonna, il giro per i profani dura qualche decina di minuti. Certo, se fossimo state persone di una certa levatura culturale, avremmo perso tutta la giornata tra gli schizzi, le bozze e i capolavori del genio norvegese. Invece ci siamo accontentati di uno sguardo veloce e abbiamo proseguito il giro della capitale.

Durante il tragitto, due menti informatiche (e un poco malate) come le nostre, non potevano non notare l’enorme quantità di reti wireless libere da password, che ci hanno permesso di orientarci per la nazione, ma anche prenotare alberghi, controllare la posta elettronica e tenerci aggiornati sulle ultime notizie in Italia.

Tornati in centro, ci siamo diretti verso il castello di Akershus, protagonista nei secoli di decine di conflitti, tra cui anche l’invasione tedesca della Norvegia del 1940. Al suo interno, oltre a cannoni d’altri tempi e tombe di ex regnanti, troviamo vari cambi della guardia squisitamente turistici a ricordarci che siamo in vacanza e non in guerra. Per fortuna.

La stanchezza inizia a farsi sentire, così ci incamminiamo verso l’albergo. Nel tragitto, tappa obbligatoria è Deli De Luca, catena norvegese di torte e dolciumi vari, con un’attraente signorina autoctona a servire al bancone. Un piccolo paradiso, insomma, dove io prendo una torta ipercalorica con mandorle e caramello, e Mattia si fa conquistare, oltre che dalla commessa, da un dolce tipico locale (pagnottina dolce con uvette), stranamente in vendita a un prezzo bassissimo, 3 per 15 corone (circa 2 euro).

La sistemazione è pressoché ottima: camera spaziosa con angolo cottura e salottino, letti soppalcati e internet veloce. Nonostante l’ora non troppo tarda, alle 18 crolliamo esausti.