Un posto chiamato posta

Questa mattina ho deciso di intraprendere una spedizione mistica, uno di quei viaggi che si possono immaginare solamente in un mondo fantastico oppure dopo aver assunto roba buona. Sono andato all’ufficio postale.

Non è una cosa da tutti e da tutti i giorni, eh! Innanzi tutto, da quando hanno dimezzato l’orario di apertura, trovarlo aperto è un po’ dome giocare alla roulette. Rosso o nero? Giorno pari o giorno dispari? Sì, perché alcuni sono aperti lunedì, mercoledì e venerdì; altri, invece, sono complementari e si possono utilizzare solamente martedì, giovedì e sabato.

Oggi era il mio giorno fortunato, e la mia puntata ha avuto successo. Arrivato davanti all’ingresso del luogo incantato, ho intravisto alcune persone all’interno. E non all’esterno, il che è già una buona notizia di per sé, perché significava non avere nessuno davanti a me per la coda. Da quando c’è la pandemia, infatti, le code si fanno fuori, indipendentemente dalla temperatura, e con tanta buona pace di chi vorrebbe prendere almeno il biglietto con il numero, così da sentirsi parte di un qualcosa di più grande e non un mero spettatore infreddolito del passare delle ere.

L’ottimismo di essere il primo della lista è un po’ scemato quando, attraverso la vetrina del sito leggendario, stimo l’età delle due persone che stanno impegnando gli sportelli. Diciamo non proprio di primo pelo.

In realtà il problema non sarebbe di per sé l’età, bensì la relazione tra quest’ultima e la tranquillità nella scelta di come trascorrere il proprio tempo libero. Pare infatti che ci sia una correlazione proporzionale (forse esponenziale) tra le due misure dopo che si è superato quell’agognato traguardo chiamato pensione. Forse si tratta di una distorsione nello spazio-tempo, che fa percepire l’avanzare verso l’eternità in modo differente.

E se da una parte della barricata di cristallo ci stanno delle entità che hanno superato l’ambito obiettivo, dall’altra parte la situazione si inverte, ma un simile obiettivo pare l’abbiano invece raggiunto gli oggetti elettronici.

L’ultimo ricordo che ho delle stampanti ad aghi risale agli inizi degli anni Novanta. Ero alla scuola elementare. Con la mia Star LC-100 Colour, collegata al mitico Amiga 500, stampavo il giornalino che usciva con regolarità nella mia città Lego. Poi, verso la metà del medesimo decennio, ancor prima che il mio corpo sviluppasse gli ormoni necessari a mettere da parte i Lego di cui sopra, la tecnologia mi portò il getto d’inchiostro. Che colori! Che precisione!

Ecco, pare che Poste Italiane abbia saltato questo passaggio. O magari qualcuno nei piani alti ha un feticismo particolare verso il suono inconfondibile degli aghetti che affondano nel nastro di inchiostro e stampano – puntino dopo puntino – immagini meravigliose. O ancora, è possibile che la decisione sia di stampo più romantico: far assaporare ai millennials quel gusto un po’ retrò che altrimenti sarebbe perduto per sempre. Escludo invece che lo facciano per avvicinare le età dei due lati del vetro antiproiettile: quello lo fanno già con gli intramontabili timbri di legno, che rompono la monotonia del bzzz bzzz della stampante con il tum-tum del maniglione.

Resta solo da sperare che le simpatiche signore (erano donne, purtroppo, ma per finzione narrativa possiamo immaginare due uomini o un democristiano parecchio: la sostanza sarebbe la stessa) si siano recate nel sacro sito per un’operazione semplice, come pagare un bollettino o inviare una missiva.

E invece no.

Il primo sospetto giunge quando, nonostante i doppi vetri che mi separavano dall’interno, sento una delle due avventrici urlare: “Non è possibile avere tre carte sullo stesso conto, così faccio confusione”. Probabilmente la stessa signora conserva gelosamente nel portafogli tutti gli scontrini degli acquisti degli ultimi 10 anni. Ma tre carte no, è un affronto.
E dallo sportello numero 2, quello più vicino alla porta, è tutto!

Dall’altra parte, invece, le informazioni sono più complesse da recuperare, anche per uno dallo spirito del giornalista d’assalto come me. Tuttavia non è di buon auspicio l’allontanamento dell’operatrice dalla postazione per un tempo indefinito. Uso il termine “indefinito” non a sproposito, perché l’ufficio postale crea una distorsione temporale talmente accentuata che l’assenza di questi luoghi dal mondo del cinema di fantascienza mi lascia sempre un po’ stupito. Il tempo, infatti, che dopo Einsten è chiaro essere relativo, trascorre in modo totalmente diverso a seconda dell’appartenenza a uno dei tre insiemi: i dipendenti delle poste, gli avventori dell’ufficio già allo sportello, gli utenti ancora in fila. Per i primi, infatti, la percezione del passare del tempo è paragonabile a quello di un bambino al luna park: “Ma come, mamma, è già ora di andare?”. Per i secondi, invece, è simile a quello dello spettatore al cinema quando ha sbagliato sala: il film passa via comunque, ma non proprio tantissimo. Gli ultimi, infine, soffrono di “amnesia da tempo”, e riescono a guardare l’orologio del telefonino anche più volte all’interno del medesimo minuto, pensando che tra una visualizzazione e l’altra avrebbero potuto guardare un paio di puntate della loro serie preferita.

Nel frattempo, inutile dirlo, si è creato un certo affiatamento tra gli utenti in attesa, culminato con l’affermazione di uno di loro: “Mia figlia, quando ha partorito, ci ha messo meno”. Io non ho figlie e non ho mai partorito, ma terrò a mente per il futuro, grazie.

Dopo circa venti minuti (percepiti: quattromilanovecento; per la Questura: due), finalmente la signora delle tre carte e dei dodicimila scontrini termina le sue operazioni – o, più probabilmente, la sua unica operazione – e faccio il mio ingresso trionfale nella maestosa costruzione.

Versamento. Tre minuti di orologio. Tre.
Nonostante la stampante ad aghi.

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