In partenza per Eindhoven

Lo so, è tanto che non scrivo su questo blog, ma la regola zero per scrivere è avere qualcosa da dire. In realtà avevo tantissimo, ma con poca voglia.

Detto questo, oggi mi sono imbarcato in una esperienza mistica: raggiungere l’aeroporto di Treviso.

Tutto è nato per un errore. Cercando gli aeroporti che connettono direttamente un luogo vicino a Trento con un luogo vicino a Eindhoven, mi trovo un comodissimo Venezia-Eindhoven firmato Ryanair. Lo compro al volo (scusate il gioco di parole) per poi accorgermi che Ryanair ammette una definizione di Venezia più elastica della mia: Treviso *è* Venezia. D’altra parte, se Malpensa *è* Milano, non è del tutto scorretto considerare Treviso come costola di Venezia. Purtroppo però l’aeroporto di Treviso non è collegato bene quanto quello di Malpensa.

Prendo atto della mia disattenzione e constato che l’aereo in partenza alle 20.20 mi dà tutto il tempo di arrivarci senza bisogno di una levataccia. Guardo gli orari di Trenitalia e trovo una combinazione di tre treni regionali che, attraversando le bellezze della Valsugana, mi portano a Treviso in tre ore. Non male, se non fosse che le due coincidenze sono rispettivamente di 8 e 11 minuti. Un po’ poco, considerati gli standard non proprio giapponesi cui Trenitalia di ha abituati.

Poi dalla stazione di Treviso all’aeroporto c’è un comodissimo bus urbano, e su quello mi sento più tranquillo (alla peggio c’è sempre il taxi).

Prenoto quindi questo viaggio mistico (per la mirabolante cifra di 9.85 euro) in modo da poter perdere entrambe le coincidenze: partenza ore 13.21 dalla stazione di Povo (ebbene sì, la Valsugana passa a 200 metri da dove lavoro). Senza intoppi, l’arrivo previsto sarebbe alle 16.20, quattro ore prima della partenza dell’aereo.

In tutto questo tempo, magari riesco pure a lavorare un po’.

Le mie buone intenzioni cessano immediatamente, appena salito sul treno a Mesiano: l’orario doveva farmi sospettare che si sarebbe riempito di imberbi studenti sulla via di casa dopo la mattinata di scuola. E infatti così è stato: inizio il viaggio in modo un po’ traumatico, stretto su un seggiolino a scomparsa e impossibilitato a tirar fuori il computer e lavorare. Pazienza, c’è sempre il mio fidato telefono, da scaricare tampinando di messaggi inutili gli account whatsapp di un po’ di gente che mi sopporta.

A Borgo Valsugana Est, la quiete dopo la tempesta: il treno si svuota e io posso iniziare a lavorare, senza mai staccare l’occhio da Viaggiatreno, l’app di Trenitalia che ti dice di quanto il treno è in ritardo (è buffo come Trenitalia abbia preferito fare un grosso investimento sul comunicarti con chirurgica precisione il ritardo di un treno, invece di investire sul tentativo di farlo arrivare in orario). Per ora sono solo 4 minuti, ma considerato che la coincidenza è di 8 e siamo solo a metà tragitto, direi che la statistica non è dalla mia parte.

E invece, ecco che il Triveneto stupisce: a Bassano del Grappa (stazione del primo cambio) arrivo in orario perfetto. Con tanto di capotreno che al mio “che bello, abbiamo recuperato il ritardo” mi ha risposto “ma noi non siamo mai stati in ritardo”. Va be’, glielo concedo.

Anche il secondo cambio (in quel di Castelfranco Veneto) va tutto a buon fine, così come il bus che dalla stazione di Treviso porta all’aeroporto. Quest’ultimo, timidino, ha la stazza paragonabile a quella del MediaWorld di Trento, per cui, se non avessi chiesto a un autoctono trevisano se la fermata dove scendevano tutti fosse proprio quella dell’aeroporto, probabilmente adesso sarei ancora sul mezzo in attesa della Heathrow del Nord-Est.

Comunque eccomi qui, con più di tre ore di anticipo sull’orario del volo, a scrivere cazzate sul blog e a cambiare il mac address del mio computer ogni 30 minuti, così da fottere il wi-fi gratuito dell’Aeroporto di Treviso.

Isola di Man – Diario di viaggio/2

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(album di foto completo su Facebook)

La notte a Douglas è stata tranquilla. La differenza rispetto ai rumori di Liverpool è talmente tangibile che ho dormito come un sasso (ok, è vero, ero anche devastato dalla giornata precedente).

Sceso nella hall dell’albergo, scopro con sorpresa una colazione britannica che gusto come se non mangiassi da mesi. L’albergo di Liverpool, dove ho passato le tre notti precedenti, non offriva la colazione, quindi per amore dei miei colleghi italiani ho sempre mangiato all’italiana, da Starbucks o Costa. A parte i fagioli (serviti con una salsa che ha il gusto del ketchup, come da tradizione), tutto il resto era delizioso e preparatorio a un’altra giornata di peregrinazioni per l’isola.

La prima tappa della giornata è una delle mete turistiche più celebri dell’isola, la ruota di Laxey. Si tratta di un enorme mulino utilizzato per pompare fuori l’acqua dalle miniere di zinco durante tutto il XIX secolo. Con i suoi 22 metri di diametro, è il più grande mulino ad acqua ancora funzionante nel mondo. Durante la rivoluzione industriale, tirar fuori dalle montagne il materiale necessario per il funzionamento dei macchinari era una delle operazioni fondamentali, e la storia insegna che la Gran Bretagna (e di riflesso l’Isola di Man) è stata capostipite del genere. Tuttavia, le miniere avevano il difetto di riempirsi d’acqua a causa di piogge e allagamenti, pertanto erano state inventate pompe sofisticate per svuotarle. C’erano molti modi per alimentare queste pompe, principalmente i motori a carbone. Sull’isola, però, il carbone scarseggiava e doveva essere importato dalla terraferma, il ché faceva aumentare i costi di gestione di qualsiasi miniera. L’idea era quella di costruire un enorme mulino, che potesse sfruttare l’acqua che le frequenti piogge sull’isola fornivano in quantità copiosa.

Piccola nota di colore: in una delle rovine della struttura si è installata una colonia di api. Siccome questi piccoli animali sono molto preziosi e gli isolani lo sanno, questi ultimi hanno inserito un disclaimer per i turisti: “sì, lo sappiamo, ci sono le api; noi ci teniamo, però; quindi vedi di adattarti, perché non le scacceremo per far piacere a qualche facoltoso turista”. Ok, il cartello è in inglese e usa un tono più pacato e gentile, ma il senso è quello che ho scritto.

Purtroppo, il venerdì mattina la pompa è in manutenzione e non è possibile vederla in azione. L’addetta alla biglietteria, dopo l’usuale domanda sulla mia provenienza con conseguente faccia stupita, è molto gentile, tanto da scrivermi sul biglietto una autorizzazione a ritornare nel pomeriggio, quando la pompa verrà riaccesa. Nonostante i miei tentativi di ripensare la giornata, non risulterà fattibile. La userò come scusa per tornare da queste parti in futuro (e magari, da buon italiano, conserverò il biglietto per non dover pagare di nuovo).

Nei paraggi si trova un’attrazione dedicata ai più piccoli, con un giro in trenino dentro alle vecchie miniere. Nonostante la mia non più giovane età, mi incuriosisce, e il mio entusiasmo riceve un brusco arresto quando scopro che è fruibile solo di domenica.

Proprio mentre riprendo l’auto, inizia a piovigginare. Niente di ché, in realtà. La giornata non è certo partita con le migliori intenzioni, ma nel mio piano di viaggio sarebbe prevista la scalata (se così si può chiamare) sul monte Snaefell, alto circa 600 metri (partendo da 550, per essere onesti). La leggenda narra che nei giorni di sole splendente dalla cima del monte si possono vedere sei regni: Inghilterra, Irlanda, Scozia, Galles, Isola di Man e paradiso. Premesso che – mea culpa – non credo nell’esistenza dell’ultimo, sarei contento di vederne almeno un paio, invece mi arrendo all’idea che dal parcheggio a 50 metri dalla sommità non riesco a vedere nemmeno quest’ultima. Decido di non salire nemmeno sulla vetta (non c’è davvero un tubo), ma aspetto una decina di minuti che arrivi il folcloristico trenino elettrico che collega la montagna con Laxey, giusto per una foto. Nonostante si tratti di un treno storico tenuto in vita solamente per i turisti, mi stupisce per la lentezza. La partenza dalla cima è prevista per le 11.10, quindi mi aspetto di vederlo arrivare alla stazione intermedia (a 500 metri circa) dopo al massimo qualche minuto. La puntualità dei treni inglesi non è nemmeno in discussione, quindi quando alle 11.16 ancora non lo vedo arrivare dò per scontato che è stato annullato per brutto tempo. D’altra parte, la tipica pioggerellina britannica e il nebbione che mi circonda non inviterebbero nemmeno il turista più impavido ad avventurarsi verso la sommità di un monte di 600 metri dove non c’è nulla e non si vede un tubo. Metto in modo la macchina, quando vedo sbucare dal candore della nebbia (forse era questo il paradiso che gli antichi millantavano di poter vedere dalla sommità della montagna) un piccolo vagoncino. Sono le 11.19, e dall’andatura con cui si avvicina alla stazione capisco la definizione di “a passo d’uomo”. A posteriori, scoprirò che per il tragitto completo fino a Laxey (7 km) impiega 30 minuti: un corridore discretamente allenato può starci dietro senza fatica.

Mi dirigo a Douglas, di passaggio per raggiungere il sud dell’isola, per fare una capatina veloce al museo dedicato alla ferrovia elettrica dell’isola. Qui è doveroso un’altra piccola digressione riguardo ai trasporti su rotaia dell’isola. Fino alla metà del 1900, la ferrovia era ampiamente utilizzata, tanto da coprire ogni centro abitato dell’isola ed essere utilizzata dagli abitanti come mezzo di locomozione abituale. Col passare del tempo, la benzina ha fatto il suo corso e la ferrovia è finita in disuso. Un paio di linee sono state chiuse, e altre due sono rimaste aperte per miracolo. Negli anni Settanta, le aziende che gestivano le linee rimaste decidono di gettare la spugna e minacciano la cessazione del servizio. Il governo, come già detto in precedenza, si preoccupa dell’acquisto dell’intera infrastruttura e la trasforma in attrazione turistica. Sono rimaste operative in tutto tre linee: Douglas-Ramsey e Laxey-Snaefell (elettriche), e Douglas-Port Erin (a vapore). Fine della digressione.

Arrivato a Douglas, trovo facilmente la partenza della linea dove è collocata l’esposizione, anche grazie all’aiuto dell’enorme scritta “Electric Railway” posta sulla montagna a mo’ di Hollywood. Di nuovo il mio entusiasmo viene azzoppato quando scopro che il museo del treno elettrico è aperto solamente di domenica. Pazienza, oggi va così.

Saluto Douglas per l’ultima volta, faccio ancora qualche foto e mi avvio verso l’estremo sud dell’isola, per recuperare un po’ di attrazioni lasciate indietro il giorno precedente. Per strada, mi imbatto in una “House of rest for old horses”, una casa di riposo per cavalli. Nel mondo anglosassone è la norma, ma all’italiano medio che i cavalli è abituato a mangiarli fa un po’ strano.

Attraverso l’intera isola (impiegandoci la bellezza di 15 minuti) e approdo a Port Erin per una gita sul treno a vapore, con relativo museo. Arrivo intorno alle 12, ma il convoglio parte solamente alle 14, quindi inizio subito con il museo (relativamente piccolo, anche se grazioso). Sono fuori dopo mezz’ora, così mi butto in un supermercato alla ricerca di una prelibatezza locale: il sandwich inscatolato. Qualcuno potrà guardarmi con disprezzo e un po’ di compassione, ma certe cose vanno fatte nel luogo dove sono state inventate. Sono capaci tutti a prendere un sandwich nelle macchinette di FBK a Trento. Farlo all’Isola di Man ha tutto un’altro sapore, ti fa sentire parte del territorio. Aggiungo un succo d’arancio al mio pranzo, e mi dirigo verso una zona panoramica per consumarlo. A dirla tutta, il tempo di questa giornata non si intona molto con la parola “panoramica”, ma tant’è.

Arrivo in stazione qualche minuto prima delle 14. La biglietteria ha finalmente aperto i battenti, e acquisto il biglietto per il paese a fianco, Port St. Mary. Il tragitto è di un chilometro appena, e la scelta non è casuale: se il treno del ritorno ha un qualsiasi problema, posso tornare a piedi a recuperare l’auto. E poi, dai, per provare l’ebbrezza di salire su un treno a vapore che va a 30 all’ora direi che due chilometri (andata e ritorno) sono più che sufficienti.

Nella cittadina di Port St. Mary ho a disposizione una quarantina di minuti, giusto il tempo di farci un giretto e prendermi un caffè. Anche in questo senso la scelta dell’itinerario è provvidenziale, visto che ieri avevo saltato il paesello, per non sottrarre tempo ai due castelli, meta principale della gita. Tra l’altro a Port St. Mary non c’è davvero un tubo. Alla ripartenza per tornare a Port Erin, mi diletto nel registrare un video che riprende il treno in ingresso nella stazione, come a chiudere il cerchio iniziato dai Fratelli Lumière più di un centinaio di anni fa. Ok, forse me la sto un po’ tirando, però potrete giudicare il video voi stessi (e comunque è stato molto divertente anche solo pensarlo).

Da Port Erin mi avvicino all’aeroporto dove tra qualche ora mi aspetta il treno per il ritorno. Nell’attesa, vado a ri-cercare Rushen Abbey premunito di fotografia sul cellulare. Questa volta la trovo senz’ombra di dubbio: era a un centinaio di metri da dove il giorno prima brancolavo nel buio. Scopro così che il cartello (l’unico) che indica l’abbazia è stato spostato dal vento o da qualche buontempone, e ora punta verso l’uscita sbagliata della rotonda.

Le rovine dell’abbazia la dicono lunga sulla sua storia, le descrizioni dei pannelli raccontano di come doveva essere la vita da monaco cistercense al suo interno a partire dal XII secolo. Il medioevo sarà pur stato un periodo buio per la scienza, ma ci ha regalato parecchio gioielli architettonici che non pensavo fossero tecnicamente possibili in quel periodo. La mia visita termina bruscamente alle 16, dopo solo mezz’ora, perché l’abbazia chiude (sic!). Non che ci fossero i presupposti per passare lì dentro l’intera giornata, ma qualche decina di minuti in più mi avrebbero fatto apprezzare meglio alcuni particolari spiegati nei pannelli a latere delle rovine.

Non mi resta altro che tornare in aeroporto, dove mi aspettano due ore di lunga attesa (paradossale: avrei avuto tutto il tempo di visitare l’abbazia, il sole da queste parti ad aprile tramonta alle 21, ma tutto chiude alle 16). Mi ritrovo a consegnare la mia fedele compagna di viaggio, e a trarre qualche conclusione su come si vive la strada dalla parte opposta. Nell’ordine, la mia top-3 delle cose più strane è: (iii) non si sa mai dove guardare agli incroci, e nel dubbio si guarda in tutte le direzioni (anche in alto), scatenando una pacata rabbia inglese nelle macchine dietro; (ii) le rotonde, che sono riuscito a non sbagliare mai, ma che ogni volta fa perdere quei 2/3 secondi per pensare a come gestirla; (i) la marcia, che si trova dall’altra parte, e prima di abituarsi a staccare dal volante la mano giusta ci sono voluti giusto due giorni.

Sono molto soddisfatto della gita, ho visitato tutti i luoghi che mi ero prefissato, approfittando anche di qualche sorpresa non preventivata. Isola di Man fatta, segno di spunta scritto, meta consigliata a chiunque voglia trascorrere un paio di giorni diversi dalla solita vacanza.

Isola di Man – Diario di viaggio/1

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È da un po’ che non scrivo sul mio blog, e un viaggio di due giorni sull’Isola di Man mi sembra la scusa giusta per svecchiarlo un po’. Trovate le foto dei paesaggi descritti sul mio profilo Facebook, nel relativo album.

Partenza la mattina presto del 23 aprile dall’aeroporto John Lennon di Liverpool, dove mi trovavo per lavoro. Quale modo migliore di iniziare questa piccola vacanza se non con una frase come “above us only sky”, glossa che campeggia sotto il logo dell’aeroporto britannico? All’interno dell’edificio principale, per allietare l’attesa dei viaggiatori, una serie di pannelli ricordano le più celebri canzoni di Lennon e dei Beatles, arricchite da preziose fotografie che riportano gli spettatori agli anni Sessanta e Settanta.

L’aereo che mi appresto a prendere è molto piccolo, dimensionato all’isola; tuttavia la cosa che mi stupisce di più sono le due eliche sui lati. Non avevo mai preso un turboelica. Già mi immaginavo un viaggio in pieno stile avventuroso, invece è stato talmente tranquillo che se mi avessero bendato non avrei minimamente sospettato che fosse un aereo radicalmente diverso da quelli con cui ho viaggiato in passato.

All’arrivo sull’isola, mi reco immediatamente allo sportello di Athol Car Hire, l’azienda dove qualche giorno prima ho prenotato il bolide che mi terrà compagnia per i prossimi due giorni. Mi si para davanti un tizio sulla sessantina, che mi scruta attentamente dall’alto in basso. Se il mio abbigliamento appare scialbo e “particolare” in Italia, potete immaginare come deve essere sembrato a un vero britannico. Iniziamo con le pratiche per il noleggio, che si concludono piuttosto velocemente con una pre-autorizzazione di 800 sterline (1.100 euro) sulla mia carta di credito, giusto per precauzione. Meno male che avevo fatto l’assicurazione aggiuntiva per gli incidenti, altrimenti avrei dovuto attivare un mutuo per affittare un’auto. Sbrigate le pratiche, il tizio mi pone un’ultima domanda, sospetta: “Ha già una prenotazione in albergo per la notte?”. “Certo che ce l’ho”, rispondo io. “Potrei vederla?”, mi chiede subito dopo. Perché mai un tizio dovrebbe chiedermi la prenotazione alberghiera? Se mi volesse vendere lui stesso una proposta convenzionata con l’autonoleggio, non insisterebbe, invece vuole che gli faccia vedere la cacchio di prenotazione. “Ecco qui”, e gliela mostro. “Ok”, mi dice lui, e mi dà le chiavi della macchina. Mi ci vuole qualche minuto per realizzare il motivo di tanta curiosità: sono italiano, vestito come mi vesto sempre, piuttosto giovane; mi gioco le palle che aveva il terrore che passassi la notte dormendo in auto!

Nel frattempo, arriva il solito messaggino del mio operatore telefonico, che in soldoni mi dice: “se vuoi telefonare e mandare messaggi puoi farlo tranquillamente, ma se ti viene anche solo lontanamente in mente di navigare su internet sappi che te ne pentirai amaramente”. Lo so, sarebbe stato più breve riportare le tariffe, ma così rende meglio l’idea. Black out di internet, quindi. Resisterò.

Nel posteggio dell’aeroporto trovo l’auto con il serbatoio quasi vuoto: la policy di Athol è quella di fornire l’auto con 8 sterline di benzina (che si pagano al momento del ritiro dell’auto), e la raccomandazione di restituirla con il serbatoio vuoto: tutta la benzina rimasta viene persa. La strategia usata da tutto il resto del mondo è esattamente opposta (ti dò l’auto piena, ridammela piena) così nessuno ci smena nulla, ma secondo me con questo sistema si rasenta la truffa: chi è che si arrischia a fare in modo di avere la macchina quasi vuota prima della restituzione?

L’auto è una Nissan Note rossa praticamente nuova, un inizio niente male. Prima di uscire dal parcheggio, cerco di prendere familiarità col veicolo, in particolare col fatto che la guida è dalla parte opposta. Con molta tranquillità esco dal parcheggio dell’aeroporto e indirizzo il mio nuovo bolide alla volta dell’Isola di St. Michael, prima tappa del mio giro dell’isola, a due passi dall’aeroporto. A dirla tutta, l’isoletta in questione non è più un’isola, bensì una penisola, collegata con un passaggio artificiale al resto della terraferma (se così si può chiamare, visto che anche l’Isola di Man è a sua volta un’isola, ma chi può negare che anche l’Eurasiafrica sia un’enorme isola? Va be’, ci siamo capiti). Prima di arrivare a destinazione, devo attraversare un campo da golf (con tanto di cartello triangolare di pericolo “attenzione alle palline da golf”) e costeggiare un vecchio e gigantesco albergo abbandonato, degno dei peggiori abusi edilizi tipici del nostro paese. Sulla penisola trovo il rudere di una chiesetta del XII secolo e un fortino circolare di costruzione più recente.

Nella prima ora di permanenza sull’Isola di Man, l’attenzione cade prevalentemente sulla vegetazione, prettamente marina ma diversa da quella cui sono abituato in Italia, più palustre e pregna di odori (non sempre piacevoli). La fauna, fatta prevalentemente di volatili, convive senza troppi intoppi con la popolazione locale.

Memore della regola sul carburante, vado subito a cercare un distributore, e investo le mie prime 20 sterline. Mi sembrano una cifra ragionevole, ma me ne pentirò. Il benzinaio, come tutto sull’isola, ne contiene nel logo il simbolo: il triscele, tre gambe messe a spirali intrecciate.

La tappa successiva è Castletown, un paesello di qualche migliaio di anime subito a ridosso dell’aeroporto (per dare l’idea: se non avessi avuto un’auto, l’avrei raggiunto a piedi in una ventina di minuti al massimo). Arroccato sul mare, deve il nome al suo castello del 1200 in ottimo stato di conservazione.

Metto un attimo in pausa il racconto, perché è necessaria una piccola digressione sui parcheggi (per i meno “nerd” del tema, basta saltare questo capoverso). Prima di iniziare la gita, immaginavo sarebbe stato complicato posteggiare la macchina a ridosso dei centri, specialmente se storici e molto turistici, ma arrivato sull’isola mi sono reso conto che – tolta la città più grande – nessun centro abitato ha più di qualche migliaio di abitanti, quindi parcheggiare “fuori città” può voler dire al massimo una passeggiata di cinque minuti. Se la pigrizia prende il sopravvento, si può sempre optare per i posteggi in centro, che nel peggiore dei casi consistono in un disco orario di 90 minuti. Gli isolani devono tenere molto a questo particolare, perché sotto al limite è esplicitato anche il periodo oltre il quale è concesso posteggiare di nuovo nella stessa zona. Per esempio, a Port Erin (di cui parlerò successivamente) il disco orario è di 90 minuti, con possibile ritorno solamente dopo due ore (mi piacerebbe capire come controllano questo aspetto, ma non vorrei divagare troppo). L’altro aspetto particolare riguarda i disabili: i loro posteggi sono molti di più rispetto a quelli che vedo in Italia (e già mi sembravano un’infinità), sono sempre vuoti (come in Italia), e devono rispettare la zona disco, se prevista. Sostare negli spazi a loro dedicati senza esporre il tagliando può comportare una multa di 500 sterline (circa 700 euro), secondo me un po’ spropositata. Fine della digressione sui parcheggi.

Castletown, si diceva. Dopo aver mollato la macchina in zona disco (praticamente in centro, da vero pelandrone doc) mi sono subito fiondato a vedere il castello. Usato prima per scopi difensivi, poi come prigione femminile, è stato sempre mantenuto in condizioni da essere fruibile, e così è arrivato fino al XX secolo, quando ha smesso la sua funzione offensiva ed è stato acquistato dal governo dell’Isola di Man per diventare la principale destinazione dei turisti nella zona. L’acquisto di beni da parte del governo per una trasformazione in attrazione turistica è avvenuto nel corso del secolo scorso per la quasi totalità dei luoghi da preservare: castelli, ferrovie, miniere, rovine di vecchi luoghi di culto, e così via. In una cultura – come quella anglosassone – che ha spostato molto presto i servizi pubblici nel settore privato si tratta sicuramente di un fatto in controtendenza.

Alla biglietteria del castello l’addetta mi chiede la mia provenienza, e dopo che rispondo “Italy” vedo una sorta di sguardo di stupore, che immagino venga insegnato ai corsi per “addetto al turismo” ogniqualvolta qualcuno dichiara di non essere un residente (a esclusione forse dei britannici, cui gli isolani sono imparentati).

Il giro del monumento dura circa un’ora, quindi sono ampiamente in tempo per gironzolare per il centro di Castletown. Niente di ché, ma almeno posso mettere un bel timbro “fatto” e passare alla prossima città. Non avendo ancora capito bene quanto le distanze sull’isola siano irrisorie, decido di andare a Ballasalla, nelle immediate vicinanze, un insieme di case (chiamarlo anche solo “paesello” sarebbe eccessivo) che nasconde un’abbazia del XII secolo, Rushen Abbey. Ho usato il termine “nasconde” perché al primo giro non sono riuscito a trovarla. Da una parte la totale assenza di indicazioni, dall’altro l’impossibilità di usare internet, dopo una mezz’ora di giri (ricordo che trattasi di un insieme di case che a confronto Povo potrebbe apparire come una metropoli) mi arrendo alla stupidità di non aver acquistato una mappa dettagliata dell’isola e volgo il muso della mia Nissan verso sud.

La prossima destinazione è la punta più meridionale dell’isola, dove un paio di isolotti staccati dal corpo principale formano una cornice suggestiva. Per non perdere nemmeno un cent (anzi, un penny) dai possibili turisti, nel punto più panoramico è stato costruito un ristorante con veranda, “The sound”. Una capatina in quell’angolo di paradiso è doverosa da qualunque visitatore con un po’ di sale in zucca: la vista lascia senza fiato, soprattutto in una giornata di sole come quella. Per completezza, mi sono incamminato verso la sommità della collina, così da poter fare qualche ultima foto. Un residente della zona si offre di darmi uno strappo (la salita non è molto confortevole) e, prima che io capisco che lui non ha capito, mi ritrovo in mezzo a campi di fiori gialli e pecore di ogni specie, a più di un chilometro dalla punta e – soprattutto – dalla macchina. Poco male: mi godo la splendida giornata, scatto qualche foto a flora e fauna e, soprattutto, mi faccio una passeggiata rigorosamente in discesa.

Riparto alla volta di Port Erin, cittadina marittima a una decina di chilometri, per visitare il museo dei treni a vapore. Arriva qui la seconda delusione, derivante soprattutto dalla (mia) superficialità nel programmarmi le tappe: il museo è aperto solamente nei giorni in cui la ferrovia è funzionante. Ovviamente la ferrovia non è funzionante, tant’è che il giro sul treno a vapore è previsto per il giorno successivo, ma dall’altro capolinea. Questo intoppo mi farà cambiare i piani, per inserire un repentino ritorno a Port Erin, non previsto inizialmente. Il fatto che io stia nel frattempo iniziando a comprendere quanto le distanze siano vicine mi avvantaggerà in queste correzioni in fieri, e la vicinanza con l’aeroporto incentiva ulteriormente.

Tappa successiva: Peel, una delle città più grandi dell’isola, popolata da ben 5mila persone (Lavis, in provincia di Trento, ne conta 8mila, per capirci). Nonostante le apparenze, è provvista di un castello, ben tre musei e dell’unica cattedrale di tutta l’isola. Sono sempre più stupito di quanto le realtà piccole non siano confrontabili con insiemi di abitanti simili in realtà più grandi. Dove trovo tre musei, un castello e una cattedrale a Lavis?

Durante il viaggio, per la prima volta mi imbatto in una delle strade percorse dalla celebre gara di moto dell’isola. Cartelli a distanze regolari ne indicano le varie prove: curve, rettilinei, tornanti, ecc.

In città, decido di dedicarmi al castello e a un giretto per il centro in modo da vedere la cattedrale, per restare in ottica vacanziera e risparmiarmi un tour de force da turista a caccia di musei. Il castello di Peel si trova sopra quella che in origina era un’isola, attualmente collegata invece con la terraferma attraverso un terrapieno (similmente all’Isola di St. Michael, ricordate?). Le sue rovine (purtroppo non è stato conservato come quello di Castletown) ne lasciano intravedere la maestosità, mentre l’audioguida fornita all’ingresso permette di tornare indietro nel tempo di qualche secolo rivedendo con l’immaginazione le decine di parti di cui era composto e rivivendo gli eventi di cui è stato protagonista. Piccola nota di colore: la tizia della biglietteria mi ha di nuovo chiesto la mia provenienza; ho rivisto la faccia stupita della collega di Castletown. È così strano arrivare dall’Italia?

Il resto di Peel non è tanto diverso da un generico borgo che si affaccia sul mare. Vista la tarda ora (si erano ormai già fatte le due di pomeriggio) mi fermo in un locale per un pranzo tipico della zona: hamburger con patate fritte. Una veloce ricognizione della cattedrale concludono la mia permanenza nell’ameno paesino.

Data la levataccia delle sei di mattina, la stanchezza inizia a farsi sentire; tuttavia la giornata è solo a metà e ho in programma almeno un’altra tappa: si tratta di Ramsey, l’unica cittadina nel nord dell’isola che merita un giretto. Alle sue porte si trova la Miltown House, una splendida villa ottocentesca contornata da un rigoglioso giardino. Sono le 16.30 e mi sembra molto appropriato un tè. La regola vorrebbe le cinque del pomeriggio, ma a quell’ora il bar chiude, come la maggior parte di qualsiasi esercizio commerciale della Gran Bretagna, il ché mi fa molto dubitare sul detto suddetto (permettetemi il gioco di parole). Mezz’ora di pausa sono il ristoro perfetto per riprendere fiato e placare un pochino la stanchezza. All’uscita, mi imbatto in uno strano oggetto simile a un robot aspirapolvere che, invece di aspirare, taglia il prato. Sui prati, con gli inglesi non c’è da scherzare. A parte quel piccolo ristoratore angolo di paradiso, Ramsey non è un gran ché. La gironzolo velocemente permettendomi l’acquisto di un turisticissimo strofinaccio da cucina con la mappa dell’isola, e poi via di corsa verso Douglas, dove mi aspetta l’albergo.

Nel tragitto, in prossimità del monte Snaefell (che con i suoi 600 metri è il rilievo più alto dell’isola), becco la coda dovuta a un incidente. Perdo una buona mezz’ora per tornare a Ramsey e prendere una strada alternativa. Arrivo a Douglas esausto, parcheggio di fronte all’albergo e una volta ottenuta la chiave della stanza mi butto sul letto, dove rimango per un’ora abbondante. Quando mi riprendo dal sonnellino ristoratore, sono pronto per procacciarmi la cena. Le lucine del mio cervello dicono che il bisogno di cibo sano è impellente. Mi butto alla ricerca di un supermercato, che trovo subito (uno Spar, parente dell’italiano Despar). Per certi tipi di articoli, non bisogna guardare i prezzi, ma soprattutto le etichette. Ci sono mele dell’Alto Adige, uva del Sud Africa, banane del Belize e mandarini del Marocco. Capisco che l’Isola di Man non si presta più di tanto alla coltivazione della frutta, però l’Inghilterra offre parecchia scelta. Va be’, non posso permettermi di fare lo schizzinoso e opto per le banane (anche quelle vendute in Italia arrivano da in culo al mondo, quindi c’è poco da lamentarsi). Prendo anche un paio di succhi che – etichetta docet – sono composti al 100% di frutta. Britannica.

Il tour prosegue. Con i suoi 30mila abitanti, Douglas è la città più grande dell’isola. Ospita tutti gli edifici governativi, le banche e le catene che ci si aspetta di trovare al centro di una città “occidentale”. C’è pure il negozio della Croce Rossa. Io, in particolare, sono alla ricerca della sede di Canonical, l’azienda che sviluppa Ubuntu e che ha sede proprio a Douglas. Tuttavia, all’indirizzo millantato sul sito non c’è nulla che indichi la loro presenza. Grande delusione, soprattutto dopo 25 minuti di camminata a piedi. Mi consolo con una piccantissima cena al ristorante indiano, seguita da un’interminabile passeggiata per tornare all’albergo.

Prima di addormentarmi, placo la mia crisi di astinenza da internet e smaltisco un po’ di posta elettronica. Quello che segue è sonno, tanto sonno.

Viaggio in Portogallo /4 – 12 dicembre 2010

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Come per ogni vacanza che si rispetti, l’ultimo giorno mette sempre un po’ di malinconia.

La mattina inizia in modo positivo, con la scoperta che le due “coinquiline” non hanno russato e che una di loro supera abbondantemente la linea di demarcazione tra “bello” e “brutto”. Dalla parte di “bello”, ovviamente.

Dopo una colazione fai-da-te nella cucina dell’ostello, ricca di fauna piuttosto variegata e di cibo piuttosto standard, una passeggiata nella storica città di Porto ci permette di raggiungere facilmente le vie centrali, costellate di negozi crisi, tendente abbandono, evidente povertà e, per fortuna, edifici dalle caratteristiche piastrelline azzurre, le azulejos. Solitamente utilizzate per decorare gli interni, a Porto le azulejos spiccano invece su chiese e palazzi dando un po’ di colore a questa città evidentemente colpita dalla crisi (nonostante la metropolitana nuovissima perfettamente funzionante).

Seguendo la linea di tram 22, storica almeno quanto la 28 di Lisbona, raggiungiamo la piazza del teatro, dove dopo qualche minuto ci raggiunge Maria Luisa, in ritardo sulla tabella di marcia per via della scoperta che dormire è bello.

La gita prosegue verso la Cattedrale (chiusa), il cui piazzale offre una splendida vista sulla sterminata distesa di cantine produttrici del vino locale, il Porto, in perfetto stile hollywoodiano (anche nei nomi, tipicamente anglosassoni).

Per pranzo ci raggiunge l’amica di Maria Luisa con il suo ragazzo. Andiamo a mangiare in un posto vicino al mare, nella periferia della città. Porto, infatti, nonostante il nome e l’apparente e ingannevole posizione sulle cartine, non è direttamente affacciata sul mare.

Parcheggiamo quindi l’automobile e ci deliziamo con un pranzo luculliano a prezzo bassissimo.

All’uscita, brutta sorpresa: qualche malintenzionato (probabilmente lo stesso losco figuro che ci ha “aiutato” a parcheggiare in perfetto stile napoletano) ha tentato di rubare la nostra preziosa Fiat Punto, per fortuna con esito negativo. Rimane però il danno alla serratura dell’auto, che Hertz quantificherà nella franchigia prevista dall’assicurazione: 70 euro. Poteva andare molto peggio.

Un po’ tristi per il funesto epilogo e un po’ per la vacanza ormai terminata, ci prepariamo alla partenza con uno dei tanti Boeing 737 di Ryanair.

Viaggio in Portogallo /3 – 11 dicembre 2010

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Il risveglio al mattino non è stato dei migliori: la ragazza dell’Alaska che ha condiviso la camera con noi non ha smesso un secondo di russare e per me che ho il sonno leggero è stato un vero e proprio trauma. La Vale non ha di questi problemi e ha ronfato come un sasso.

Per fortuna la colazione era da leccarsi i baffi. Una boccolosissima signora di mezza età ci aspettava nella hall dell’albergo con addirittura due opzioni tra cui scegliere: uova e pancetta in stile anglosassone oppure crêpe con marmellata e nutella in stile mediterraneo. Optiamo per la seconda scelta e ci sbafiamo la nostra porzione di crêpe.

Chiara, la cugina di Maria Luisa, è impegnata con l’università per tutta la mattina, quindi ci incontriamo in centro con Maria Luisa per andare alla scoperta della chiesa di Santa Maria di Belém, nella zona ovest di Lisbona. Qui ci attende una seconda colazione nel locale storico Pastéis de Belém a base di un dolce molto tipico del Portogallo, il pastéis, appunto.

Dopo l’obbligata visita alla torre (con relative foto al limite della decenza tipiche dei turisti in vacanza), si torna in centro per l’appuntamento con la cugina di Maria Luisa. Nell’attesa, le due fanciulle scoprono (mio malgrado) alcune bancarelle di ninnoli vari. Per fortuna Chiara non si fa troppo aspettare.

Il pranzo è una sorpresa, così come il viaggio per arrivarci. Prendiamo infatti lo storico tram 28, le cui carrozze risalgono agli inizi del secolo scorso. All’arrivo ci aspetta un bistrot di paese, tipico e poco turistico, che ci serve manicaretti da leccarsi i baffi (e io che i baffi li ho davvero so di cosa parlo).

La seconda parte della giornata trascorre in un vecchio mercato, dalle dimensioni spropositate, che i portoghesi chiamano “mercato delle cose rubate”. Al suo interno si trova qualunque cianfrusaglia che possa venire in mente: dalle sorpresine dell’equivalente degli ovetti Kinder autoctoni, a pezzi di cellulare palesemente rotti, passando per vestiti nuovi e usati, scarpe (anche una sola) e porcellana varia. Qui trovo un paio di oggetti che possono interessarmi: li porto a casa con circa cinque euro.

Lungo la strada del ritorno, seguendo a piedi il tracciato del tram 28 ci fermiamo a prendere un tè su un Miradouro, dal quale la vista sull’estuario del Tago lascia senza fiato.

Una breve sosta a casa di Chiara per un caffè ci ricorda che la giornata a Lisbona è finita ed è giunto il momento di riprendere l’automobile (28 euro per parcheggiarla un giorno in centro) e avviarci alla volta di Porto.

Le tre ore di viaggio passano in fretta, anche dato lo scarsissimo traffico (quasi nessun camion) delle autostrade portoghesi. L’ostello che ci aspetta si rivela come sempre bello e pulito, vicino al centro e per fortuna facilmente raggiungibile con l’automobile. Maria Luisa, anche questa volta, riesce a scampare il lumino e si fa ospitare da una sua amica portoghese, conosciuta quando, qualche anno prima, questa aveva vissuto in Italia grazie al Progetto Erasmus.

Viaggio in Portogallo /2 – 10 dicembre 2010

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Nonostante una colazione in ostello non proprio memorabile (tutto autogestito), la seconda giornata del viaggio inizia nel verso giusto con un ottimo caffè espresso al bar Carolla, nella zona universitaria di Coimbra: 60 centesimi a testa, un prezzo mai visto, in particolare in terra straniera.

Coimbra, pur essendo grande all’incirca come Pavia, non offre molto se non la zona universitaria, posta nella parte centrale della città, che domina la restante parte da una lieve altura. Gli edifici dell’ateneo ricordano quelli della Sapienza di Roma: un’estetica fascista, per un cuore di morbido e sano comunismo studentesco.

Dopo il giro del Rettorato in compagnia del sottofondo musicale di Maria Luisa e della sua inseparabile guida Clup, salutiamo l’Università di Coimbra con la visione della Facoltà di Farmacia, che giace abbandonata e piena di erbacce, cinta da un cancello chiuso.

Il giro prosegue nella chiesa del paese, come la tradizione europea vuole. Al suo interno gli altoparlanti usati normalmente per la messa diffondevano una soave musica sacra, forse per incentivare i visitatori a mantenere un religioso silenzio.

A pranzo, ci lanciamo di corsa verso il ristorante che ci ha negato una cena la sera prima, per trovare una coda di cinque persone davanti a noi che durerà quasi un’ora. Nel frattempo a turno andiamo a fare un giro, e io decido di comprare i francobolli per le cartoline. Trovo subito grazie a Navigon un vicino ufficio postale, per scoprire che in Portogallo il concetto stesso di “ufficio postale” è molto strano: trattasi di un piccolo bugigattolo all’interno di una specie di tabaccaio pieno zeppo di gratta-e-vinci, lotterie e scommesse sportive.

Ammazzato il tempo necessario per ottenere il posto, entriamo nel tanto agognato locale e scopriamo il motivo delle code interminabili: l’unica sala del locale, comprendente la cucina, è grande non più di 50 metri e contiene esattamente sei tavoli, per un totale di circa 30 posti. Se poi si considera che è uno dei locali di punta della città, un’ora di attesa risulta quasi dovuta.

La pappa è ovviamente superlativa, a base di carne (i portoghesi mangiano praticamente solo quella) e a prezzi come sempre fuori da ogni abitudine italiana. Alla fine mangiamo con circa 10 euro a testa, esattamente come la sera prima. Per il caffè e la pipì ci affidiamo a un bar poco distante, dove Maria Luisa, non troppo a piombo a causa del vino bevuto al ristorante, riesce a (o crede di) rompere l’asciugamano del bagno, scoppiando successivamente in una risata fragorosa.

Dopo pranzo, si parte per Lisbona, seconda tappa della vacanza. Il viaggio non è lungo, ma estremamente abbioccante, sia per il pranzo luculliano, sia per la voglia di Pocket Coffee instillatami da Maria Luisa: in tutte le aree servizio dove ci siamo fermati abbiamo trovato scaffali pieni di Mon Chéri e Ferrero Rocher, ma di Pocket Coffee nemmeno l’ombra.

All’arrivo ci aspetta Chiara, la cugina di Maria Luisa, studentessa di architettura in Erasmus a Lisbona. La serata procede in un’originale movida portoghese comprensiva di cena multietnica con vari amici di Chiara: una ragazza bulgara, una spagnola, un’italiana e un giappo-brasiliano (ma non ditegli che è giapponese o, peggio, cinese, altrimenti si arrabbia).

Ora si tratta di portare l’automobile in un parcheggio decente (quelli “blu” per strada non permettono il pagamento di più di quattro ore). Senza troppo guardare alla spesa, la abbandoniamo a un parcheggio del centro, in Piazza Figueira, a due passi dal nostro ostello. Questo, oltre a trovarsi in una posizione perfetta per visitare la città, offre una marea di servizi, un luogo accogliente e pulito e, non meno importanti, receptionist davvero attraenti!

Viaggio in Portogallo /1 – 9 dicembre 2010

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Dopo la Norvegia, patria del freddo e delle spese folli, ora tocca il Portogallo, realtà decisamente differente ma pur sempre appealing per trascorrere qualche giorno in compagnia. Anche questa è cambiata: al posto di un maschietto (Mattia), mi terranno compagnia due donzelle (Vale e Maria Luisa).

La partenza da Bergamo, 9 dicembre 2010, assume da subito toni drammatici. L’aereo di Ryanair parte in serata, quando a Bergamo la temperatura è a ridosso dello zero. Montgomery e giacca da sci, però, fanno adeguatamente il loro dovere. Si riveleranno inutili, anzi decisamente di troppo, dopo l’arrivo nel caldo Portogallo, nonostante l’ora tarda: la temperatura media oscillava tra i 10 e i 15 gradi.

L’aeroporto di Porto è moderno, nuovo, e presenta una nazione in cui la situazione globale è ben diversa. Ci buttiamo subito sullo stanzino Hertz, completamente vuoto, dove una voce registrata in una cornetta ci invita ad aspettare il pullman giallo che ci avrebbe portato nella sede (altrettanto gialla) dell’azienda di car rent. Nell’attesa del nostro turno, ci buttiamo subito sulle macchinette di bibite e porcate varie. Io e la Vale ci deliziamo con un Twix, mentre Maria Luisa acquisterà il primo di una lunga serie di latte e cioccolato, scelta forzata a causa della sua celiachia.

Alla fine ci hanno dato una Fiat Punto, alla quale aggiungiamo tutte le assicurazioni possibili. La storia vuole che quando si assicura tutto poi non succede nulla, ma in realtà questa volta il sig. Murphy si è distratto e l’assicurazione si rivelerà di fondamentale importanza.

Nel momento di prendere l’autostrada, scopriamo l’assurdità del sistema di pedaggio: in alcune parti il sistema è identico a quello italiano, il che non ci crea particolari problemi; in altre parti, però, il sistema funziona in un modo che definire “malato” non renderebbe adeguatamente l’idea. Il casello è sostituito da una macchina fotografica, che scatta un’istantanea della targa e segna il pedaggio da pagare. Ventiquattro ore dopo bisogna andare all’Ufficio Postale per pagare il dovuto. Non è dato sapere come i turisti possano pagare l’ultimo giorno di permanenza, non avendo a disposizione un Ufficio Postale portoghese 24 ore dopo l’ultimo viaggio.

Impostiamo dunque il navigatore satellitare verso Coimbra, la nostra prima meta. Arriviamo a destinazione senza alcun problema, anzi decisamente di buon umore dopo aver ascoltato la sensuale voce femminile sintetizzata del Navigon che recita gli improbabili nomi delle strade portoghesi.

L’ostello è molto gradevole e rappresenta solo il primo di una lunga serie di ottime sistemazioni notturne, nonostante il suo aspetto trasandato all’esterno. Dopo esserci sistemati, andiamo verso il centro per cenare in un ristorante consigliato a Maria Luisa da una sua amica. Purtroppo, data l’ora tarda (erano le 23 circa), dobbiamo rinunciare e ripieghiamo verso un locale vicino, dal nome evocativo Aeminium, l’antica denominazione della città. Io e Vale ordiniamo un doppio piatto di carne e verdure, mentre Maria Luisa opta per il pesce. Mentre noi divoriamo le enormi porzioni che caratterizzano la cucina portoghese, un’enorme tavolata di adolescenti domina il rumore del locale. Alcuni di loro si recano in bagno, uscendone strofinandosi il naso. Ma non voglio trarre conclusioni affrettate.

Usciamo soddisfatti e satolli, abbandonando nel ristorante metà delle nostre porzioni.

In ostello Maria Luisa incontra un uomo seminudo nel bagno unisex (decisamente un’anomalia rispetto alla mia esperienza), ma per fortuna questo non sconvolge più di tanto la sua esistenza. A parte le lenzuola all’apparenza ultra-sintetiche e l’assenza del riscaldamento, la notte procede senza ulteriori intoppi.

Viaggio in Norvegia /4 (24 ottobre 2010)

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Ed è arrivato, ahimè, l’ultimo giorno di vacanza.

Ci svegliamo presto, la colazione è servita solamente fino alle 9. Anche oggi english breakfast a base di uova e pancetta. Dopo il fiero pasto, Mattia si corica ancora qualche decina di minuti sul letto, stanco del viaggio e, più probabilmente, sopraffatto dalla malattia che sta covando ed esternando. Una Tachipirina, però, compie egregiamente il suo lavoro e intorno alle 11 partiamo baldanzosi alla volta di Oslo.

La signorina della reception ci suggerisce di non prendere il tunnel (“the big tunnel is just a tunnel”), ma di optare per la stradina che porta a Laerdal attraverso i meravigliosi paesaggi dei fiordi norvegesi. Non senza qualche perplessità, decidiamo di seguire il consiglio e ci avviamo verso la sperduta stradina. Non ci ferma nemmeno un cartello minaccioso con scritto “strada chiusa” all’inizio della salita. Quello che davvero ci fa ripensare alla decisione è una summa di strada tortuosa, ghiaccio sull’asfalto e, soprattutto, totale mancanza del parapetto. È destino che si faccia il mega tunnel.

Dopo la turisticissima fotografia davanti al cartello che declama la lunghezza della galleria (ben 24.6 chilometri), entriamo. Il tunnel sembra non finire mai, e dopo 6 chilometri troviamo un piacevole spiazzo scavato nella roccia e illuminato di una luce azzurrina. Ne incontreremo altri tre e scopriremo che servono per spezzare la monotonia dei 24 chilometri: effettivamente potrebbero causare sonnolenza anche all’autista più preparato.

Fuori dalla montagna, ci troviamo davanti a un bivio: entrambe le strade portano a Oslo, ma una è leggermente più corta. Non ci facciamo intimidire dalle stupide leggende metropolitane e imbocchiamo quest’ultima, finendo né più né meno in una zona quasi desertica degna della steppa siberiana.

Per fortuna dopo qualche decina di chilometri incontriamo Gol, un piccolo squarcio di civiltà, sottolineata anche dagli impianti sciistici e dai negozi di articoli sportivi. La fame inizia a farsi sentire, quindi ci fermiamo in un fast food gestito da pakistani per pranzare con due piatti di indefinibili proporzioni.

Nonostante l’abbiocco, ripartiamo senza troppi problemi. Come sempre nella nostra avventura last minute, mentre io guido, Mattia si occupa di prenotare l’albergo. Questa volta troviamo posto in un megalussuoso hotel a quattro stelle in un piccolo paese chiamato Asker, a est di Oslo.

All’arrivo, il ragazzotto della reception non trova la nostra prenotazione, ma una telefonata provvidenziale (e un po’ minatoria) al servizio clienti di Olotels ci permette di dormire. Anche per stanotte è fatta: veloce cena al McDonald’s a pochi metri dall’albergo e poi a nanna, per l’ultima volta in terra norvegese.

Viaggio in Norvegia /3 (23 ottobre 2010)

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Terzo giorno. Si fanno sempre più sentire le particolarità norvegesi: i costi eccessivi, il freddo polare, le ragazze… gnocche (inutile usare giri di parole).

Alzati alle 9 circa, finalmente ci degniamo di fare una colazione decente: Mattia rimane fedele ai gusti italiani, mentre i miei occhi si illuminano quando la ragazza dell’ostello mi propone la colazione all’inglese. Ovviamente sì; e arrivano così uova, wurstel e pancetta.

Alle 10 partenza per Bergen, seconda città norvegese per dimensione. La strada da seguire è quella del percorso europeo E39, che comprende ponti, gallerie e tratti di traghetto. Sulla questioni ponti/gallerie, poi, siamo rimasti notevolmente stupiti nello scoprire che per non rovinare il paesaggio i norvegesi hanno preferito costruire lunghissime gallerie sotto i fiordi, piuttosto che antiestetici ponti. Ci troviamo quindi davanti a ben due tunnel prima in ripida discesa, poi in piano e successivamente in salita. Nel punto più fondo non manca la fotografia al cartello: 260 metri sotto il livello del mare.

È il turno dei traghetti, utilizzati per i tragitti più lunghi dove sarebbe stato impensabile costruire ponti o gallerie. L’organizzazione, manco a dirlo, è ottima. Le corse sono frequentissime, una ogni mezz’ora, e in circa 6 minuti con puntualità vengono sbarcate tutte le automobili del viaggio in arrivo e caricate quelle del viaggio in partenza. Il battello non ha nulla da invidiare a quelli dei viaggi di linea, disponendo di bar, ristorante, servizi e collegamento internet.

Globalmente, in quattro ore abbiamo percorso 200 chilometri tra ponti, gallerie e viaggi in traghetto.

Vedendo questa organizzazione, che per i norvegesi rappresenta la normalità, ci si chiede per quale motivo in Italia ci vogliano trent’anni per decidere come diavolo unire Sicilia e Calabria, distanti solamente tre chilometri.

All’arrivo, si capisce subito che Bergen rappresenta una metropoli del nord Europa: troviamo negozi di lusso, locali, ristoranti, monumenti e gli immancabili fast food (compreso Deli de Luca). I prezzi rimangono sempre proibitivi, e decidiamo di mangiare in un banale McDonald’s.

Finito il tour e riscoperti i soliti tre “must” (ricordiamo: freddo, prezzi e donne), continuiamo il giro e ci portiamo nuovamente avanti sulla tabella di marcia. L’idea è quella di fare tappa a Voss per la notte, centro abitato di circa 12 mila abitanti. Tuttavia, molti alberghi sono chiusi e i pochi disponibili sono pieni, oppure hanno prezzi più proibitivi del solito, con cifre che superano i 100 euro per notte a testa.

Optiamo per allungare ulteriormente fino ad Aurland, paesino di 1800 anime situato proprio all’imbocco del famoso tunnel automobilistico di 24 chilometri, il più lungo del mondo. Per fortuna nell’unico albergo presente troviamo posto (990 corone, 120 euro), così puntiamo il Tomtom verso il paesino.

Giunti a trenta chilometri circa dal centro abitato, troviamo però il cartello di ingresso nell’area comunale, al che ci poniamo il problema di dove fosse l’albergo. Telefoniamo nuovamente, per sentirci dire: “prima del tunnel lungo, girate verso il paese”. Ora, che ci sia il tunnel di 24 chilometri lo sappiamo, ma quando ci troviamo davanti a una galleria di 11 chilometri, il dubbio su quale intendesse per “tunnel lungo” comunque viene. Scopriremo successivamente che 11 chilometri per un tunnel in Norvegia sono la normalità.

Una volta trovato, l’albergo si rivela estremamente confortevole e ci regala una vista impagabile sul fiordo. Mattia nel frattempo decide che la vacanza rappresenta il suo cambio di stagione, e si becca l’influenza. Per fortuna ho portato la Tachipirina.

Viaggio in Norvegia /2 (22 ottobre)

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Per restare allenati, il secondo giorno ci aspetta una levataccia che, seppur non pesante come la precedente, non mette certo di buon umore. Alle sei meno un quarto tutti in piedi per raccattare i nostri amenicoli informatici sparsi per la stanza e prendere il tram delle sei e mezza. Tram che prevedeva sì la vendita di biglietti a bordo, ma a prezzo maggiorato; e alle 6.35 del mattino, buio pesto, non c’erano molti posti dove comprarli. Ce la siamo “cavata” con 40 corone (5 euro).

Alla stazione degli autobus Mattia si lascia di nuovo sedurre dai tre panini dolci di Deli de Luca. Io opto per un sano frutto, categoria merceologica decisamente carente nel menu dei norvegesi. Mattia, per svegliarsi un po’, cerca disperatamente di prendere un caffè alla macchinetta, riuscendo nell’intento con parecchia difficoltà.

Il viaggio in autobus fino a Torp trascorre rapidamente tra un sonnellino e una partita a Monopoli sull’iPhone. All’aeroporto consegniamo la nostra prenotazione alla graziosa signorina di Hertz e ci facciamo dare le chiavi del bolide: Volkswagen Polo 1.2. A parte un primo intoppo nel cercare di aprire il bagagliaio, la macchina è ok. C’è persino lo scalda sedile, indispensabile alle temperature nordiche. Grande assente: l’aria condizionata.

Impostato il Tomtom, partiamo alla volta di Kristiansand, prima tappa del nostro viaggio.

L’autostrada sarebbe confortevole, se uno strato di neve e ghiaccio non ci costringesse a velocità da carro bestiame e un’attenzione da gara di tabelline. Per fortuna guida Mattia. Subito prima di arrivare a destinazione, ci fermiamo per rifocillarsi con un hot dog presso un 7-Eleven, catena simile all’Autogrill, presente sia nelle stazioni di servizio sia nei centri abitati.

Grazie alla posizione vicina al mare e verso sud di Kristiansand, presto le temperature si riportano su valori adeguati ai nostri poveri corpicini, fino all’arrivo nella cittadina norvegese. Mare implica però vento, e a pochi gradi sopra lo zero, il vento è “peso”. Durante il giretto nel grazioso centro storico, mi fermo a un Kiwi (un equivalente del defunto Dì per dì italiano) per la mia solita razione di frutta. Acquisto anche una bottiglietta di Pepsi Raw, una cola “naturale”, priva di additivi chimici, tentativo del gigante americano di guadagnare terreno sull’eterno rivale Coca Cola.

Inizialmente la nostra roadmap prevedeva una notte a Kristiansand, ma io e Mattia siamo persone che, nella vita ma non nel lavoro, preferiamo fare oggi ciò che potremmo benissimo rimandare a domani. Inoltre Kristiansand è piccola e concludiamo il giro in un paio d’ore, tra il porticciolo e le spiagge che però, data la stagione, sono praticamente deserte. Così si riparte, questa volta con me alla guida, per la prossima tappa: Stavanger.

La seconda parte del viaggio vede come protagonista il mare, con la stranezza della vegetazione circostante, tipica in Italia dei paesaggi alpini. Colpisce in particolare la presenza della neve, che con il mare ha poco da spartire (anche se in realtà sono fatte della stessa roba). Mentre io sono dedito alla guida, Mattia si diletta con qualche foto e regala svariati euro a Tre nelle telefonate per la ricerca di un albergo a Stavanger.

Dopo poche ore l’amico Tomtom ci porta dritti al B&B dove abbiamo miracolosamente trovato una camera per la modica cifra di 890 corone (110 euro). La stanzetta è piccola e fretta, manca il gabinetto, ma è provvista di lavandino lillipuziano e doccia che si affaccia direttamente nella stanza.

È ora di cena e chiediamo alla ragazza della reception se ci siano locali dove poter mangiare qualche piatto tipico. Dall’espressione stupida e un po’ schifata, capiamo che i norvegesi non mangiano troppo raffinato. Ci consiglia comunque una serie di posti “carini” sulla costa, che poi scopriremo costare almeno 80 euro a testa per dei piatti spesso tipici italiani (ma tu guarda il caso, eh?). Optiamo quindi per una cena veramente norvegese e ci buttiamo in un fast food di infima categoria.

La serata, ormai giunta al termine, mi regala però una chicca: la versione come-mamma-l’ha-fatto di Mattia, immagine obbligata vista la posizione alquanto insolita della doccia. La radiosa visione mi è stata talmente traumatica che durante la notte ho russato, evento mai capitato prima.