Pubblico qui di seguito un’intervista che ho realizzato per Jekyll.
Daniele Fanelli, un passato da giornalista per le pagine di New Scientist e Le Scienze, ora si occupa di sociologia della scienza presso l’Università di Edimburgo. Sarà a Trieste il 25 novembre, in occasione del IX Convegno Nazionale sulla Comunicazione della Scienza, con un intervento dal titolo “Come la scienza fa notizia, e la notizia fa la scienza, in Italia e Gran Bretagna”. In un recente articolo, Fanelli parla di cattiva scienza, e di come a volte i ricercatori “barino” nel presentare i loro risultati. In che senso? E chi sono i più “cattivi”? Glielo abbiamo chiesto.
[audio:http://www.ziorufus.it/wp-content/uploads/2010/11/fanelli.mp3|titles=Intervista a Daniele Fanelli]Buongiorno, dottor Fanelli. Lei ha una preparazione molto poliedrica: è sociologo, è ricercatore, è giornalista, scrive per molte riviste come New Scientist, L’Espresso, Le Scienze. Ma per fare tutte queste cose, era necessario andare a Edimburgo. Anche lei è un cervello in fuga?
Cominciamo a specificare che io, soprattutto adesso, per i giornali scrivo poco. Quanto al fatto del cervello in fuga, certo devo dire che dove mi trovo adesso è un altro mondo.
Quindi, da un punto di vista accademico, l’Italia non le manca.
Assolutamente no.
È a Edimburgo che è nato il suo amore con la sociologia, oppure era già nato prima?
No, io venuto qui per fare il tipo di ricerche che faccio adesso. Dopo il dottorato ho fatto un Master in Comunicazione della Scienza a Milano e ho cominciato rapidamente a lavorare per le riviste che diceva prima. Piano piano, però, ho sviluppato l’idea di fare questo tipo di studi, ovvero praticamente fare una scienza dello studiare una cattiva scienza. Con questo in mente, a un certo punto ho chiesto una borsa europea, che si chiama Marie Curie. È una borsa molto buona, abbastanza competitiva. Per fortuna l’ho avuta, e questa borsa prevede che uno vada a fare ricerca in un altro Paese in un altro laboratorio. Ed è per quello che sono venuto a Edimburgo.
Lei ha parlato di “cattiva scienza”. Tra l’altro, ha scritto un articolo in cui dice proprio che i ricercatori barano. Perché barano?
Se si riferisce alla meta-analisi, questo è quello che dicono i ricercatori. Si trattava di una meta-analisi tramite survey, questionari anonimi distribuiti in vari diversi studi a ricercatori di varia estrazione e di vari paesi chiedendo loro: “Avete mai falsificato i dati o manipolato risultati?”.
Come ad esempio le marchette?
Sì, c’erano anche questi elementi. Il discorso è poi molto articolato. In quello studio, semplicemente, ho messo insieme i dati di diversi studi, utilizzando appunto la meta-analisi, che è un modo rigoroso di mettere insieme diversi valori per avere un quadro piuttosto complessivo. In pratica ho tirato le somme su quello che in forma anonima i ricercatori stessi ammettono riguardo a quello che hanno fatto.
Barano più i ricercatori italiani o quelli anglosassoni?
In quello studio non era possibile capirlo perché in Italia non esiste un solo di questi studi. In Italia si fa molto poco per tutto quello che è connesso a questi aspetti. Francamente io uso diversi metodi con cui cerco di rispondere a queste e altre domande simili, che sono un po’ la curiosità di tutti. Devo dire che evidenze che l’Italia in questo senso faccia peggio che altrove non ne ho.
Tornando alla questione della fuga dei cervelli e della questione della ricerca in Italia: cosa si dice nel mondo anglosassone dei nostri problemi, dei tagli dei finanziamenti alla ricerca?
Sono ben noti. E poi i problemi in Italia riguardano, come ben sa, sia la mancanza di fondi e poi, probabilmente connesso, un problema strutturale. C’è questo sistema di concorsi abbastanza oscuro e protettivo di chi è già entrato nel sistema, che rende molto difficile l’ingresso alle nuove generazioni. Queste sono cose ampiamente discusse su Nature e altre riviste internazionali. Non è un mistero per nessuno. Il fatto che le università di Stati Uniti, Inghilterra e altri paesi, poi, siano piene di universitari italiani non è un caso.
Un’ultima domanda per chiudere in bellezza: lei ha mai barato?
Io? Sempre! (ride) La domanda è ovvia. Io non ho barato. Il problema, in buona parte, non è solo di barare, ma è anche la capacità di non lasciarsi ingannare da se stessi. Lì, per me, è il problema più grosso, è la fonte maggiore di risultati falsi nella scienza. E da quello non si emula nessuno. Il problema diventa quello di avere un sistema scientifico che funzioni. Come lei sa, il principio è che nella scienza dovrebbe valere sì la qualità dei dati pubblicati, ma anche soprattutto il fatto che altri possano controllarli, cercare di replicarli: è da lì che deriva la credibilità delle ricerche scientifiche. Non è perché gli scienziati siano più onesti o più intelligenti degli altri, ma perché c’è un sistema che garantisce che le cose sono vere e replicabili da chiunque oppure non sono credibili.
La ringrazio tantissimo e… ci saluti il paradiso!
Grazie, in bocca al lupo.